Ho un ricordo in mente. Io da piccolo che mi gratto le croste procuratomi cadendo. Il sangue che sgorga. E la ferita torna a bruciare. Mia mamma urla:”Se non la smetti di grattarle non si cicatrizzeranno mai!”. Bisogna ascoltarle le mamme. Sempre. Sanno più di quanto danno a vedere. Eppure io non lo facevo. Puntualmente tornavo a torturarmi la sbucciatura sul ginocchio, o il morso di zanzara (che la fidanzata del Biondo, Winnie, chiama “becco”). Perché non riuscivo a smettere?
Forse, per lo stesso motivo per cui la nonna ad ogni Natale rispolvera le foto di famiglia. E giù a piangere i defunti. L’identica ragione che ci spinge a rileggere vecchie conversazioni su Whatsapp. Che andrebbero archiviate. O meglio cancellate. Quale piacere autolesionistico si trae nel riesumare ricordi che sappiamo ci procureranno dolore e nostalgia? è un attimo di pazzia. Un folle brivido che s’impadronisce della mente. Lo stesso dell’assassino mentre affonda la prima coltellata. Pensate che ricordando un momento in cui siete stati felici lo sarete di nuovo? Non è così. Non se la ragione della vostra felicità passata non è più presente. Non se le ferita non si è ancora cicatrizzata. Bisogna darle del tempo, farla rimarginare. Solo allora si può riguardare quel brutto taglio sul polpaccio e ridere del volo in bicicletta che ce l’ha procurato.
Il me bambino mi chiede quanto ci vuole perché una crosta si cicatrizzi. E mi chiede anche se riuscirà mai a smettere di grattarla. Perché ne ha una sul petto a cui continua a pensare. La tolgo via ancora una volta e poi smetto. Giuro. Almeno voi però cancellateli quei maledetti messaggi su Whatsapp. Chiudete gli album fotografici nel ripostiglio. E date ascolto alla mamma. Sempre. Che sa più di quanto dà a vedere.
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